sabato 19 maggio 2018

Gennaio del 1861, la battaglia di Bauco. Fu l'ultima grande vittoria per i "briganti" filo borbonici



di Fernando Riccardi

Nel lungo e travagliato decennio del brigantaggio post-unitario non c’è mai stata una battaglia vera, una di quelle in campo aperto. Ci fu, invece, tutta una serie di scontri repentini, di agguati improvvisi e fulminei, di colpi di mano, di azioni mordi e fuggi con le quali gli insorgenti filo borbonici riuscirono a mettere a mal partito il ridondante, e spesso inadeguato, esercito piemontese.. Un’eccezione, in tal senso, è ciò che accadde a Bauco, l’odierna Boville Ernica1, il 28 gennaio del 1861. Bauco era, ed è tuttora, un piccolo paese raggomitolato su di una modesta altura, protetto, fin dall’alto Medio Evo, da una robusta cinta muraria. Una terra di confine, se così si può dire. Pur essendo possedimento papalino, Bauco si trovava a ridosso della linea di demarcazione che fino al settembre del 1870 ha separato il regno borbonico prima e quello d’Italia poi, dallo Stato della Chiesa. Una striscia di territorio dove le bande godevano di una libertà di movimento pressoché assoluta. In caso di pericolo passavano facilmente da una parte all’altra lasciando gli inseguitori, costretti ad arrestarsi alla frontiera, con un palmo di naso.
Cosa che dava molto fastidio ai piemontesi i quali, ad onta dell’enorme dispiegamento di uomini e di mezzi, non riuscivano a venire a capo della rivolta. La minaccia per il comando sabaudo di Sora era costituito dalla grossa banda, più di 400 uomini, del conte alsaziano Theodule De Christen alla quale si erano aggiunti i “selvaroli” di Chiavone, accampata nei pressi dell’abbazia di Casamari. In territorio papalino, quindi, ma non così distante da non poter piombare in breve lasso di tempo a Sora e dintorni.  Il 22 gennaio del 1861 il generale De Sonnaz ordinò ai suoi soldati di oltrepassare il confine e di marciare contro i briganti. Colti di sorpresa e nettamente inferiori di numero gli insorgenti si ritirarono andandosi a trincerare nella munita cittadella di Bauco.
I piemontesi, nel frattempo, stizziti dalla fuga dei briganti, non seppero frenare la loro ira e misero a ferro e a fuoco il monastero5. Qualche giorno dopo (28 gennaio) una nutrita colonna di granatieri mosse all’attacco di Bauco sperando di risolvere la contesa in un battibaleno. E invece l’accanita resistenza dei difensori spense assai presto la loro baldanza.  Per ben tre volte i piemontesi provarono a superare il fitto fuoco di sbarramento ma furono respinti lasciando sul terreno numerosi morti e feriti.
Nel corso della giornata lo scontro divenne aspro e si giunse anche ad un accanito corpo a corpo. I difensori, giovandosi della posizione favorevole, riuscirono a respingere gli assalti grazie anche ad un fitto lancio di pietre. Fu una lotta feroce, senza esclusione di colpi, con italiani che si battevano contro altri italiani.  Ai piemontesi, infatti, si opponevano non solo i briganti di Chiavone ma anche un nutrito nucleo di ex soldati borbonici provenienti dalla Sicilia. A Bauco, in quel gennaio del 1861, si scontrarono due Italie: quella ricca e prepotente del Nord e quella povera e cenciosa del Sud.  Constatate le gravi perdite, da parte sabauda partì la proposta di interruzione delle ostilità e di patteggiamento che fu subito accolta da De Christen.
Si addivenne, dunque, ad un accordo che per l’esercito di Vittorio Emanuele aveva l’amaro sapore della sconfitta. De Sonnaz, recuperati morti e feriti, fu costretto a ritornare con le pive nel sacco a Sora, dopo aver giurato sulla sua parola di ufficiale di non rimettere più piede in territorio papalino. Gli insorgenti avevano ottenuto una netta e inaspettata vittoria. Le truppe regolari piemontesi erano state sconfitte da una banda di irregolari. Davvero un grave smacco per l’esercito sabaudo e per i suoi impettiti generaloni abituati a trattare le derelitte genti del meridione alla stregua di incivili selvaggi dell’Africa nera.  Un evento questo che non modificò, né poteva farlo, le sorti di una guerra senza speranza, già persa in partenza.
Ad ogni modo fu anche grazie alla battaglia di Bauco che i nuovi governanti compresero finalmente lo scenario cui si trovavano di fronte. Non si trattava di eliminare una sparuta accozzaglia di ladruncoli e di furfanti, come qualcuno voleva far credere all’opinione pubblica, bensì di arginare quella che si era ormai trasformata in una vera e propria sollevazione popolare e che stava avvampando con particolare virulenza tutta la porzione meridionale della Penisola.
Alla fine, grazie all’impiego massiccio dell’esercito e a drastiche misure legislative, il fuoco della rivolta su sopito.  I costi, però, specie in termini di vite umane, sull’uno e sull’altro fronte, furono drammatici. Interi paesi finirono per essere svuotati ma anche il cammino dei soldati piemontesi nelle desolate lande del meridione fu costellato di croci e di cimiteri.  L’esercito sabaudo, in quel lungo decennio, subì più perdite di tutte quelle fatte registrare nelle guerre di indipendenza messe assieme.  Una tragica ecatombe che si sarebbe potuta evitare. Proprio come quella cruenta battaglia di Bauco che, alla fin fine, fece registrare un altro inutile spargimento di sangue. Di sangue italiano.
Il 26 agosto del 1905 alcuni cittadini presentarono al sindaco di Bauco una singolare petizione: chiedevano, infatti, che si fosse proceduto a cambiare il nome del paese. “Non è un capriccio che ci spinge a rivolgere una simile domanda ma è una necessità. Il nome Bauco ha dato e dà luogo a molti inconvenienti e tra i tanti quello che ha un gran numero di nomi di altri paesi che gli somigliano. Quindi il permanente pericolo che la corrispondenza che dovrebbe giungere qui su, vada invece altrove”. E poi ancora: “Il nome Bauco non è certo un nome che suoni bene all’orecchio né è un nome che significhi qualche cosa, anzi in altre province il nome Bauco ha un significato tutt’altro che lusinghiero”. Il che, ad onor del vero, è arrivato ai giorni nostri o quasi. Ricordo, infatti, che tra ragazzi ci si prendeva in giro dicendo: “Sembri un baucano”, volendo con tale termine significare una persona poco sveglia e dall’intelligenza limitata. Tornando a quel documento, i petenti chiedevano a gran voce che fosse ristabilito “l’antico nome di Boville” aggiungendovi “l’appellativo di Ernica per distinguerla dalla Boville Albana che era a poche miglia da Roma, lungo la Via Appia”.
Di qui la conclusione: “Boville o Boville Ernica quindi dovrebbe essere il nome che con maggior fortuna potrebbe sostituire il nome Bauco e noi per l’affetto che nutriamo per il nostro paese, nella speranza che il nome nuovo inizi una vita nuova ed un forte risveglio di tutte le forze e di tutte le energie…”. Il testo originale della petizione è conservato nell’archivio comunale di Boville Ernica. Ringrazio sentitamente l’ex sindaco Michele Rotondi per avermene messo a disposizione una copia. La richiesta dei cittadini fu accolta e così, nel 1907, Bauco diventò Boville Ernica. Da qualche tempo, comunque, qualcuno sta pensando seriamente di ritornare al passato e di ripristinare il vecchio nome. Uno dei più convinti assertori dell’idea, per molti versi rivoluzionaria, è Ruggero Mastrantoni che fino al 2003, e per un decennio. è stato primo cittadino di Boville.
Non ci meraviglieremmo, dunque, se, di qui a qualche tempo, il paese dovesse tornare a chiamarsi Bauco, proprio come un tempo. Soltanto con la “Convezione di Cassino” (24 febbraio 1867), grazie ad un preciso accordo con il governo pontificio, le truppe italiane ebbero la possibilità di continuare ad inseguire i briganti anche al di là delle linea di demarcazione con lo Stato della Chiesa. Nato nel 1835 a Colmar, figlio cadetto di una nobile famiglia alsaziana, si dedicò con profitto alla vita militare. A soli 25 anni era già diventato colonnello nell’esercito francese. Fervente cattolico e convinto legittimista, nel 1860, venne in Italia per partecipare alla difesa dello Stato Pontificio. Quindi si portò a Gaeta dove Francesco II di Borbone tentava di resistere ai piemontesi. Formò un corpo di volontari stranieri con il quale prese parte valorosamente all’insorgenza filo borbonico nel meridione d’Italia.
Catturato dai piemontesi e condannato a dieci anni di reclusione, venne rinchiuso prima nel bagno penale di Nisida e poi nel carcere di Gavi, in Piemonte. Rimesso in libertà dopo due anni grazie ad un provvedimento di amnistia, De Christen tornò a Roma per difendere lo stato del papa. E nella città eterna rimase fino al 1870 quando irruppero i piemontesi. Morì poco dopo, a soli 35 anni, a causa di una grave malattia. Per saperne di più cfr. Theodule de Christen, Journal de ma captivité, suivi du récit d’une campagne dans les Abruzzes, versione italiana, Malta 1866.
Luigi Alonzi, alias “Chiavone”, nacque a Sora, in contrada La Selva, nel 1825. Suo nonno Valentino era stato uno dei più fedeli luogotenenti di Gaetano Mammone che molto si era distinto nel 1799 nell’alta Terra di Lavoro. Dopo l’avvento dei piemontesi e la fuga dei regnanti borbonici prima a Gaeta e poi a Roma, divenne tra i più audaci e convinti sostenitori del deposto re Francesco II nel sorano e nei paesi limitrofi. Postosi alla testa di un folto gruppo di “selvaroli” iniziò a contrastare con le armi le iniziative del nuovo governo rendendosi protagonista di numerose azioni che riscossero l’apprezzamento della centrale borbonica che, dall’esilio romano, dirigeva le operazioni legittimiste nel territorio dell’ex regno. Proprio in virtù di tali imprese fu nominato prima Generale e poi “Comandante in capo delle truppe del Re delle Due Si cilie”. Ben presto, però, entrò in contrasto con la visione più militare degli altri capi legittimisti stranieri giunti sulle montagne di Sora per dirigere le operazioni di guerriglia. Nell’estate del 1862 i dissidi diventarono insanabili e culminarono con l’arresto dell’Alonzi. Un improvvisato tribunale di guerra presieduto dal Tristany condannò Chiavone alla pena di morte. Il 28 giugno, alle prime luci dell’alba, in una radura della valle dell’Inferno, un plotone di esecuzione eseguì mediante fucilazione la sentenza. Con lui fu giustiziato anche il fido segretario Lombardi.
Qualche tempo dopo i loro corpi furono bruciati e del generale Chiavone non rimase che uno sparuto mucchietto di cenere. Al riguardo cfr il bel libro di Michele Ferri-Domenico Celestino, Il brigante Chiavone. Storia della guerriglia filoborbonica alla frontiera pontificia (1860-1862), Edizione Centro Studi Cominum, Tipografia Editrice Pasquarelli, Sora 1984. 5 “Nel 1861 Casamari visse un’altra triste pagina della sua plurisecolare storia. Il 16 gennaio, il conte De Christen, fedele al re delle Due Sicilie, accampato da diversi giorni con 287 soldati, compresi i realisti di Chiavone, nei pressi di Santa Francesca, a pochi chilometri da Veroli, espresse il desiderio di fare tappa a Casamari, prima di raggiungere Sora per tentare di riconquistarla; chiese, perciò, all’abate (Michelangelo Gallucci, nda) ospitalità per sé e per la sua truppa. Temendo che il monastero si trasformasse in teatro di battaglia il Gallucci non acconsentì alla richiesta.
Quattro giorni dopo, fallito il tentativo di riprendere la città di Sora al nemico sabaudo, il conte De Christen, insieme al Chiavone, fu costretto alla ritirata e, giunto a Casamari, con la truppa, chiese nuovamente all’abate ospitalità per i suoi soldati stanchi e affamati. L’abate acconsentì, inizialmente, solo al ristoro dei soldati; dietro forti insistenze del conte, dovette, però, cedere alle sue richieste e ordinò, così, ai monaci di sfamare i soldati e, subito dopo, di condurli al fienile per riposarsi. Trascorso qualche giorno, il 22 gennaio, la truppa, avuta notizia che l’esercito piemontese aveva oltrepassato i confini pontifici e che alcuni dei suoi soldati facevano fuoco dalla cappella di Reggimento, decise di lasciare in tutta fretta Casamari e di portarsi a Bauco. Mentre quei soldati marciavano verso la cittadina campanina, Casamari si vide circondata da duemila soldati piemontesi i quali credendo che i realisti e i chiavonisti fossero asserragliati dentro le mura monastiche, cinsero d’assedio l’abbazia e, con atti vandalici, la saccheggiarono, diedero fuoco alla farmacia, legandovi dentro il religioso fr. Michele Cianchetti che miracolosamente riuscì a liberarsi prima di essere avvolto dalle fiamme, al fienile, al forno, all’ufficio del cellerario, danneggiarono statue e crocifissi, si impossessarono dei paramenti, dei vasi sacri e, perfino, della pisside le cui ostie furono disperse e profanate… Verso sera, finalmente, i soldati lasciarono l’abbazia e i monaci, duramente provati, ma fortunatamente tutti vivi, rimasero a contare le rovine. Informato dell’accaduto, Pio IX, profondamente addolorato, inviò alla Comunità, insieme alla sua apostolica benedizione, un sussidio di 370 scudi d’oro, un calice d’argento, un ostensorio, tre pissidi e alcune pianete di damasco” (Luca Molignini, Gli abati claustrali dell’Abbazia di Casamari.
Dall’introduzione della riforma trappista (1717) all’erezione canonica della Congregazione di Casamari (1929)”, Edizioni Casamari, Tipografia Francati, Isola del Liri 2007, pp. 151/153). A Boville Ernica vi è una lapide marmorea che ricorda il sacrificio dei soldati piemontesi. “Ai Granatieri del 3° Reggimento che da Sora quassù persequendo la reazione borbonica caddero eroicamente il 28 gennaio 1861”. Nessun accenno, ovviamente, alla grave sconfitta patita. Né un ricordo per gli insorgenti filo borbonici che in quell’occasione persero la vita. Eppure anch’essi combattevano per un ideale. Per conoscere nei dettagli la battaglia di Bauco cfr. Modesto Arcangeli, Memorie storiche di Bauco, ristampa anastatica dell’edizione del 1891, Tipografia “La Monastica”, Abbazia di Casamari, 2001, pagg. 109/119. 8 In una lettera inviata a Cavour il 27 ottobre del 1860, Luigi Carlo Farini, primo luogotenente di Napoli, così scriveva: “Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile” (Ottavio Rossani, Stato società e briganti nel Risorgimento italiano, PianetaLibro Editori, Lavello 2002, pag. 23).

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